Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/188

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di espiazione, il mio dolore, non sono quelli di un mistico o di anormale, e non mi vergogno di quelli, se pure non riesco a liberarmene.

Andato via l’ingegnere, rimasi legato da un filo solo, ma potente, nella casa di Agar. Ella era sparita; ne sentivo però la presenza, intorno a me, anche nella stanza terrena che forma il primitivo salotto di don Achille, ed anche il suo studio, non del tutto disprezzabile per la quantità e la qualità dei libri, carte, documenti, che vi sono chiusi gelosamente in un grande armadio a muro; la sentivo, sì, muoversi nella casa, silenziosa e tenace nella sua apparente rassegnazione, e mi interessavo solo fino a un certo punto ai segreti del parroco e della parrocchia. Egli aveva aperto uno sportello dell’armadio, dal quale usciva uno strano odore di fiori secchi, di topi, di canfora spruzzata contro di essi; ne tirò fuori alcuni documenti, che riguardavano la fondazione della chiesa e il suo primo restauro: quasi indecifrabili per me, letti però da lui come un libro imparato a memoria. E leggendoli, egli prendeva la voce cadenzata e compunta di quando celebrava la messa: poi li palpava, li fiutava, li ripiegava e legava con nastrini di colore, come fasci di lettere amorose. Tutta la sua vita è lì, legata alla chiesa come ad un’amante inferma: basta una speranza di guarigione, d’un rifiorire del corpo adorato,