Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/207

Da Wikisource.

— 197 —

ormai conoscevo Agar, ella si mise a ridere: era felice di essersi confessata, e sperava certo nella mia assoluzione: ma il mio viso non la rassicurò, e si rifece anche lei scura, quasi minacciosa.

— Adesso? Non lo so. Lei crede che io, come stupidamente sembra, sia rassegnata e tranquilla: una pecora, insomma; si sbaglia, però. Ho impeti atroci di ribellione; desiderio di vendetta. Se non amassi troppo la vita, e non avessi pena del povero zio, a quest’ora avrei già massacrato Antioco. Ma forse ne sono ancora in tempo: o forse non ne vale la pena. Voglio prima tentare di dimenticare; di vendicarmi in altro modo. Posso anch’io andarmene per il mondo, e trovare fortuna. Qui, certo, non morrò. A meno che… Lei conosce il mio pensiero, – riprese, poiché io tacevo. – E adesso, mi permetta di rivolgerle anche io una domanda: che farà lei?

— Io?

Mi piego; interrogo me stesso: sono quasi felice di dire anch’io la verità.

— Non lo so, Agar: non è in nostro potere fissare la linea della nostra vita. Ciò che so, fermamente, è che non farò male a nessuno: bene, sì, se potrò. Questa è la sola fortuna, nella vita, non quella che lei, Agar, vuole cercare per le vie del mondo. Resterò qui, io, invece; almeno finché la mia opera non sarà compiuta.