Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/87

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la vista del limpido paesaggio, i gridi di gioia delle cornacchie che s’inseguivano fra le querce del poggio accanto, mi rendevano più agile e bravo: sentivo intorno a me, finalmente, un’aria di perdono.

Arrivo alla mia fortezza palustre. Paolone è sempre al lavoro, con la moglie accoccolata sull’ombra di lui: ella taglia le patate, nodo per nodo, dove questi cominciano a tirar fuori il piccolo corno del germoglio: ed egli le pianta nel solco, umido e molle come una farina scura appena impastata. L’odore della terra e delle radici avvolge queste due creature come un incenso a loro dovuto; e il mio arrivo incrina qualche cosa di quest’armonia naturale, come la mia ombra taglia, spada sinistra di malaugurio, l’ombra accoppiata per terra quasi in atto di amore. Sento la mia voce risonare stonata nel silenzio del luogo.

– È arrivata la posta?

È arrivata: è lassù, nel mio osservatorio, ma non mi affretto a cercarla perché so che non c’è una tua lettera: non c’è, non ci sarà mai e questo è giusto: te l’ho chiesto io, e fa parte della mia espiazione. Può un condannato a vita ricevere notizie che sciolgano la sua catena? Eppure... Ma no, non scuotiamola, questa catena: il suo stridore rompe l’incanto del tempo che