Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/97

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camera, — lo preparo da me, con una macchinetta a spirito, — siamo usciti assieme, e, quasi istintivamente, almeno per parte mia, siamo andati a vedere la pieve. Era chiusa e, d’altronde, poiché cadeva la sera, forse non era il caso di visitarne l’interno: allora abbiamo guardato la facciata, volta ad occidente, e invero mi prese di nuovo un senso di incantesimo, come se un viso fino a quel momento mascherato si togliesse il velo che lo nascondeva e ci sorridesse con grazia e con amore. Grazia e amore melanconici, anzi austeri, ma infinitamente buoni: divinità della fede. Il colore incerto dei muri era tinto ancora del lieve rossore del vespero, e le due finestre ai lati della facciata davano l’impressione di occhi viventi: una piccola lapide, quasi una targa, è sopra la porta: c’è incastrato il frammento antichissimo della croce, con la mano chiusa, l’indice e il medio alzati a benedire i passanti che sostano sullo spiazzo davanti alla facciata, al margine della strada provinciale. Strada un tempo battuta da soldati di ventura, ma anche da pellegrini diretti a Roma e fino in Terra Santa. Ho desiderio di inginocchiarmi, pellegrino in viaggio di espiazione pur io; non lo faccio, per un timore mondano del mio compagno, ma tutta l’anima mia è piegata davanti a quel segno di pace.