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di sognare. Egli conservava tutti i denti e tutti i capelli, ma su questi apparivano già delle sottili striscie grigie, e così pure l’alta fronte si piegava, e gli angoli degli occhi profondissimi si restringevano come per stanchezza dolorosa. No, egli non sognava più; ma spesso il desiderio di cose ignote gli faceva interrompere l’arido e bizzarro lavoro. E appoggiava la fronte sulla mano e pensava ch’era giustizia di Dio s’egli poteva alfine morire in pace, nella sua casa silenziosa.

Sì, certo, avrebbe lasciato buona parte delle cose sue a Mikela, alla sottile nipotina, che portava tanto silenzio e tant’ordine nella sua vita squilibrata.

Così passò l’autunno.

Dopo i primi giorni, in cui don Evéno aveva parlato molto con Mikela consegnandole e facendole conoscere tutti i labirinti della casa, non era più corsa alcuna intimità fra loro. Egli stava quasi sempre fuori, viaggiava anche, mancando per settimane intere, e le ore che passava in casa si raccoglieva nel suo studio, e scriveva, oppure riceveva, e, non chiamava Mikela che per darle degli ordini.

Essa ascoltava a testa china, sfuggendo lo sguardo dello zio, e talvolta arrossiva