Pagina:Deledda - La casa del poeta, 1930.djvu/175

Da Wikisource.

— 169 —

parte all’altra del ramo che pareva di corallo: intorno a sè vedeva i frutti e le foglie del suo stesso colore, e tutti del colore del sole; e, sotto, l’orto, ben diverso da come lo vedeva dal portico; tutt’altra leggiadrìa, luminosa e fantastica, sotto quel liquido cielo d’autunno, quasi un fondo marino. Tutto vi scintillava e tremolava, tutto vi era felice, anche le foglie che cadevano per lasciare ai frutti l’intero sole, anche i funghi velenosi che, nei cantucci d’ombra, parevano fiori di carne.

Solo l’uomo zoppo e nero ansava di pena, aggrappato alla scala come ai suoi sogni impossibili. E l’impossibile sogno del vecchio era, in quel momento, di acciuffare il suo Cecè.

— Cecè uslìn, bello, piccolino, andiamo. Ti aspetta la tua Cicì; andiamo, su, buono, vieni.

Sì! Appena sentita la mano del padrone, il canarino sgusciò via, come un raggio di sole. Andò a posarsi sul pero, dove le foglie erano più fitte e del suo preciso colore. Ci vollero tempo e pazienza, e torcicolli e scambio di strilli tra i vecchi coniugi, per scoprirlo una seconda volta. Una seconda volta la scala fu appoggiata alla pianta, e la moglie dovè tenerla ferma perchè il marito salì fino all’ultimo scalino, e di là s’inerpicò fra i rami del pero.

— Cecè, animalaccio, mi fai dannare l’anima, dunque? Vieni, su, o ti strozzo.

Il canarino preferì salvarsi. Con salti di danza