Pagina:Deledda - La chiesa della solitudine, 1936.djvu/17

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pena da qualche rotolìo di carretti o da passi di cavallo nella strada campestre.

Ma verso sera la solitudine si animò; una figura d’uomo campeggiò, grande, fra le piccole cose della cucina, quasi sproporzionata e stonata nel piano del quadro povero e stupito. Era Aroldo, il forestiero. Aveva un sacco sulle spalle; una specie di zaino che si sfilò lentamente dalle braccia aitanti, e depose in un canto, allontanando con la palma della mano il gatto subito curioso e avido.

— Va via, mascalzone, — disse, accarezzandolo: — non ti basta il buon odore intorno?

E lui stesso fiutò l’aria, come un ospite giunto al luogo ove troverà benessere e riposo. Ma la figura nera di Concezione, con quel viso notturno e gli occhi carichi di ombra, parve oscurare anche la sua. Il sorriso gli si sbiadì sulla bocca: bellissima bocca, con le labbra lucide infantili e i denti che parevano ancora quelli di latte.

Tutto del resto era bello e quasi troppo colorato, nel suo viso roseo, nei capelli biondi, negli occhi azzurri che le sopracciglia nere, alte e arcuate come quelle di una donna rendevano più vivi e dolci.

E rosso era il collo forte, rosse le mani forti, tutto forte, vivo, sanguigno, nel suo corpo quasi gigantesco.

Eppure parve sbiancarsi e diminuirsi tutto,