Pagina:Deledda - La chiesa della solitudine, 1936.djvu/222

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Intanto avrebbe voluto spenderli per fare ricerche per conto suo; ma non osava parlarne con nessuno; non si fidava di nessuno. Quando la madre era assente, ella scivolava furtiva nella chiesetta, ne tentava uno per uno i mattoni, batteva sul pavimento, faceva buchi, avendo poi cura di chiuderli col cemento; si sollevava sudata e anelante, stringendosi la testa fra le mani.

— Sono pazza; lo so, sono pazza, — gemeva ad alta voce; ma non desisteva dalle sue vane ricerche.

Avrebbe voluto confidarsi almeno con Serafino, sotto il sigillo della confessione, ma anche lui, lui più degli altri, le destava diffidenza e quasi ripugnanza. Lo vedeva per la prima volta nel suo vero aspetto di uomo debole, malato, esaltato: che aiuto poteva darle? E quando si accorse che questa sua disperazione intaccava la sua fede religiosa ne provò un terrore freddo e duro, come se un pericolo soprannaturale, più spaventoso di quello del suo male, la minacciasse. Sognava, in quelle notti chiare di fine estate, che due lune si rincorrevano in cielo; si azzuffavano, si frantumavano: la terra si riempiva di pezzi di oro giallo, sui quali non si poteva più camminare; e la gente moriva di fame e di sete. Di oro si colorava davvero la natura: