Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/16

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sibile il poter morire ancor così giovane e forte.

Ma appunto pensando alla vita, al tempo indeterminato che ancora gli restava da vivere, un’altra sorta di disgusto, meno angoscioso, ma più desolato, lo assaliva: era la noia e l’indifferenza profonda per ogni cosa, per il passato, il presente e l’avvenire; era l’orrenda domanda del poeta dei Fiori del male:

Oggi, domani e posdomani ancora
Viver dovrò?...

In queste grigie ore di sconforto, più fisico che morale, Stefano vedeva attraverso un velo d’uggiosi vapori la sua vita trascorsa inutilmente, gli studi compiuti di mala voglia, l’esistenza brillante e vuota e viziosa di studente ricco, che di anno in anno aveva trascinato per le grandi Università del continente, il suo tedio, la sua nostalgia, la posa del suo scetticismo e la sincera nervosità di montanaro sardo, spostato in un ambiente ove non erano i soffi ardenti dei partiti nemici, le caccie vere ed ardite (non le irrisorie caccie alla volpe), le cavalcate, la prepotenza e la preponderanza della sua figura di primate da villaggio. Ma ora anche questa figura, le sue passioni violente, i viaggi, i selvaggi piaceri, tutta la vita strana condotta sino allora, ogni memoria in fine gli appariva disgustosa attraverso il fu-