Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/182

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suadente stormire del noce, l’affascinante visione di limpidi orizzonti azzurri, di tranquilli paesaggi dormenti al sole di meriggio...

Ma questa sublime illusione dei sensi, al lento e velato risveglio si cambiava in repentina e affannosa amarezza; restava nelle aride labbra qualcosa di salato e disgustoso; il pensiero rientrava d’un tratto nella solita orbita di tedio, e le sensazioni tutte si svegliavano, stupite, addolorate, quasi umiliate per essersi lasciate ammaliare dalla svanita chimera.

Stefano si stiracchiava sul gran letto splendido, da cui Maria era silenziosamente sparita dopo breve siesta, sbadigliava, alzava le braccia coi pugni stretti, le lasciava ricadere, e richiudendo gli occhi cercava di riaddormentarsi. Ma l’incanto era rotto e il sole declinava. Bisognava levarsi, muoversi, tornare alla realtà; e l’idea dell’interminabile sera sfaccendata dava a Stefano un disgusto più profondo di quello che le ore gli preparavano.

Si scuoteva; sollevava la testa e la lasciava ricader sulla calda impronta del guanciale, sbadigliando con sospiri che parevan gemiti; alfine si decideva, infilava le pantofole di panno ricamato, e silenziosamente vagando sui tappeti della camera si lavava, si spazzolava ferocemente la testa, chiedendosi a fronte china, coi capelli irti spruzzati di forfora, col viso pallido e gli occhi gonfi: — Ed ora?