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e meno facili, stava appollaiato come un avvoltoio in una capanna vicina al nuraghe: di là dominava regalmente su tutta la tanca e i sottoposti pastori: aveva porci, capre e pecore; aveva una fila d’alveari addossati al muro dell’ovile, e inoltre dissodava certi aspri pendii per seminarvi orzo e frumento.

I cani di Stefano si diedero a scorrazzare allegramente fra le macchie, e dopo un poco Josto penetrò nella capanna, fiutando la pietra del focolare, e sollevò la cenere polverosa. Il grosso cane fulvo legato presso la capanna cominciò ad abbaiare cupamente, con un latrato rauco che destò gli echi sonori dell’aspro paesaggio; ma nessuno apparve.

— Dove diavolo è quel mascalzone? — domandò Stefano smontando. Senza togliergli la sella perchè sudato, legò il cavallo ad un elce: fischiò, attese, ma nonostante i continui e potenti latrati del cane, nessuno compariva. Allora avanzò per una breve radura in cerca del pastore: sulle roccie apparivano le capre bianche dalla lunga barba appuntita; guardavano con grandi occhi neri umidi, e vedendo il giovane signore si arrampicavano ancor più in alto, andando a brucare gli estremi cespugli dei dirupi: anche un branco di porci magri, neri, grigi e gialli, che rovistavano col muso un tratto della radura, sparirono grugnendo.

Finalmente s’udì una voce che gridava per