Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/261

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tunno, egli sentiva tutta la sua debolezza, tutta l’imperfezione del suo carattere; ma ora, nel freddo e morto cerchio di quel vespero nevoso, disperava di trovar la sua via.

Avvicinando il volto ai vetri, tanto che il suo fumante alito li appannò, tornò ad immergersi nella visione del fuggente panorama nivale: le nuvole invadevano anche il lontano lembo sereno, le gocce del vetro tremavano grigie, ogni luce, ogni estrema speranza, ogni sogno moriva nell’uniforme, sconfinato, gelido squallore delle nevi. Tutta la vita, tutta la natura era un immenso cimitero marmoreo, e i morti, solo i morti parlavano nel lento avanzarsi delle nuvole cineree e nell’immacolato silenzio dei pallidi orizzonti.

Stefano pensò a Carlo, l’ultimo e il più amato de’ suoi morti, e fu in quella sera di supremo sconforto che vagamente, mentre disperava della vita e di se stesso, ebbe l’idea di porre il nome del defunto al figlio nascituro. Il pensiero dei morti lo spingeva verso coloro che dovevano nascere; e mai come in quella triste sera pensò più intensamente al figlio che fra pochi mesi, forse al maturar del grano, Maria gli avrebbe dato. Oh, se i morti parlavano nelle dilaganti nuvole nevose, i nascituri avevan sorriso nel lembo di cielo sereno, e il loro sorriso d’oro restava ancora occulto, ma potente e benefico, sulla tristezza dell’anima turbata. Las-