Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/37

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attraverso la luce, quasi cercando nella dorata trasparenza del fragrante moscato una luminosa visione, forse la realtà di quegli archi di perla gialla, di quelle tremolanti gallerie di cristallo e d’oro, di quegli atrî splendenti che conducevano a un incantato palazzo di ágata, che il riverbero del lume produceva sulle sfaccettature del calice.

Non sapendo cosa altro dire, domandò con insistenza a Maria come ella stesse e cosa facesse durante la giornata.

— Così! — esclamò essa un po’ stupita. — Ora sto meglio; anzi sto bene.

Ma Stefano capì ch’ella diceva così solo per bontà, per non dare sfogo a vani lamenti, e, pensando al ruvido e monotono ambiente in cui ella viveva, ne sentì compassione e disgusto: egli vi sarebbe morto di melanconia; ella invece, delicata e debole, non solo ci viveva rinchiusa come una monaca, circondata d’usi funebri, quasi barbari e inesorabili, ma con la sua bontà illuminava e raddolciva tutta la casa. Come mai ciò? Ella dolcemente glielo spiegò.

Tesseva, lavorava, pregava e taceva. Ed egli pensò a chi sa quali invisibili, tormentosi fili di tristezza, di sogni morti, di dolori fisici e morali, di ricordi il cui miele si cangiava in assenzio, di disperazioni immense e vuote come l’infinito, che certo seguivano la trama della