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188 | g. deledda |
il fiume, sempre mormorando le arcane parole. Annodò a più riprese il giunco e lo lanciò sull’acqua che lo trasse nella sua silenziosa corsa; poi si segnò col falcettino, si curvò sull’acqua, bagnandosi prima le mani, poscia i piedi, e rimise entro la rozza camicia il mazzo di relique. La cerimonia era compiuta: quando il giunco si marcirebbe entro l’acqua, le vacche guarirebbero.
Ma le vacche non guarirono, e zio Felix disse che la cerimonia non aveva avuto effetto perchè Antine aveva assistito senza crederci.
E Antine continuò ad annojarsi, a rattristarsi. Si levava a sole alto, e rimaneva quasi tutto il giorno vicino al fiume, tra i freschi aliti della brezza che sfogliava gli oleandri. Altrove, nella tanca, il caldo era intenso: fiamme ardenti salivano dalle stoppie d’oro; le vacche e i puledri domati dal calore snervante, meriggiavano nelle corte ombre delle macchie e dei muri. Solo dopo il tramonto il fresco alito del fiume saliva e dilagava per la tanca; di notte, poi, quando la luna batteva sulle stoppie, e i grilli cantavano, la dolcezza era infinita, infinita.
La linea argentea della tanca sfumava nel