Pagina:Deledda - Nel deserto, Milano, 1911.djvu/198

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— Io non posso concepire un pittore povero, che faccia economia di colori, — disse un giorno a Lia, e aggiunse, con semplicità che meravigliò la vedova, che sua nonna, una ricca signora romagnola, gli mandava mille lire al mese.

— Ma non bastano, non bastano, sebbene io viva come un anacoreta, lei lo vede, signora Lia.

Ella accennò di sì: lo vedeva bene.

— Ah, ma a me non importa la vita esteriore, — egli riprese, come parlando alla figura che dipingeva. — L’arte mi basta. Vi sono giorni in cui mi dimentico di mangiare. Che sarebbe stato di me senza l’arte? Mi sembra che sarei diventato un beone o un libertino o magari un delinquente. Noi tutti abbiamo in noi una forza creatrice che ha bisogno di esplicarsi e, se rinchiusa, fermenta ed esplode come un gas o ci corrode come un acido velenoso. Ah, sì, io sono contento d’essere un artista e di poter esplicare questa forza divina. Io sono contento, signora Lia: mi sembra talvolta d’essere un bambino. Non ho bisogno di nulla, neppure di amore. Io non ho mai amato.

— I bambini, appunto, non amano, ma ameranno! — disse Lia, che non lo apprezzava gran che come «creatore» ma lo invidiava come uomo. Egli era giovane, sano, libero, viveva di rendita e di illusioni!

— Amare? — egli riprese, fissando con lo stesso sguardo luminoso e freddo la figura viva e pal-