Pagina:Deledda - Nel deserto, Milano, 1911.djvu/24

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e il mare dalla finestruola della sua camera corno dalla feritoia di un castello medioevale e spiava il passaggio di qualche veliero o di qualche paranza sulla linea scintillante dell’orizzonte, o la nuvola di polvere argentea che indicava giù nello stradale lungo la costa l’arrivo della diligenza: e nelle ore sonnolenti del pomeriggio leggeva il «Muto di Gallura» e altri romanzi sardi e pensava che Adelasia di Torres, prigioniera nel castello di Burgos, doveva come lei spiare intorno, nel cerchio di roccie e di brughiere che stringeva il poggio del suo esilio, un segno di speranza, una promessa di liberazione.

Con l’anima smarrita nell’illusione di un mondo lontano ove tutto era forza e bellezza, ella non si accorgeva della selvaggia poesia che la circondava: le pareva che una palude densa le sovrastasse e che i suoi gridi si perdessero nel silenzio malefico, velati e lamentosi come lo strido degli uccelli acquatici.

Le api ronzavano tra i fiori delle macchie, l’asfodelo o le cipolle marine profumavano l’aria, il cielo era d’un azzurro intenso, quasi violaceo all’orizzonte; e su tutto il paesaggio regnava una calma profonda, infinita. Pareva davvero che una notte luminosa si stendesse su quella regione di paludi e di macchie; al cader della sera il silenzio continuava eguale, intenso, o solo al grido dei trampolieri seguiva il grido più chiaro e più triste dell’assiuolo. Ah, quel