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ordinari d’ufficio; una sera, poi, verso la metà di aprile, quando era già vicina la nascita del figlio, egli raccontò a Regina una storia al quanto strana.

— Se non mi sgridi, — le disse, — ti confesso un mio peccato.

— Se l’hai già fatto e te ne sei pentito, è inutile che ti sgridi.

— Pentito? No; è questo il grave, non me ne sono pentito. Senti: la sera del giorno in cui tu sei partita, l’anno scorso, io sono stato trascinato da un mio amico in una casa da gioco...

— Ah! — fece Regina.

— Non spaventarti; è stata l’unica volta. Ero naturalmente irritato, arrabbiato... quasi disperato. Ma, vedi — non ne abbiamo parlato mai; però bisogna che te lo dica almeno una volta, — io ero irritato più contro me stesso che contro di te. Chissà! Tu forse avevi ragione: io ero stato imprudente, o imprevidente... non ti avevo bene spiegato le piccole miserie della vita mediocre delle grandi città... Basta, non parliamone. Io ero dunque irritato contro me stesso, che non ero buono a sollevarmi dalla mia piccola posizione, mentre tanti altri brigano, fanno, disfanno, spingono, si cacciano dapertutto. «Levati tu, che mi ci metto io». Andai, dunque, giocai. Avevo cento lire, se ricordi; le misi tutte sul tappeto verde. Vedi, — ora ti dirò tra parentesi, — quella sera mi accorsi che io ero ancora un gran fanciullone. Credevo di conoscer gli altri e me stesso, ed invece... Trovai là tre o quattro miei colleghi; mi accorsi che uno barava: un altro