Pagina:Deledda - Nostalgie.djvu/202

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verde, ritto fra due cestini d’arancie, vigilava l’ingresso. I tronchi delle colonne coricati al sole avevano riflessi metallici; dagli alberi del Palatino, sfumati sulle pennellate d’argento che solcavano il cielo, venivano soffi di fragranze campestri, gridi di uccelli in amore.

Regina scese giù correndo, penetrò sotto un arco e si fermò colpita da un freddo improvviso; un prete le passò vicino, nero e svolazzante come un melanconico uccello. Ella s’avanzò, aprì la Guida, ma non lesse. Giochi di sole e d’ombra chiazzavano l’immensità vuota e deserta del Colosseo; i muri screziati d’erbe selvatiche e di fiori gialli davano l’impressione di lembi di montagna; certi angoli ombrosi, verdi di musco freddo, parevano piccole pianure umide; misteriose caverne spalancavano le grandi bocche nere; rauchi lamenti di corvi stridevano dietro le muraglie. Tutto era sogno, rovina, morte: anche l’azzurro del cielo, troppo intenso, guardato da quel luogo, dava un’impressione di tristezza.

— Io non ho mai amato la storia, — pensava Regina. — C’è della gente che viene da lontano per entusiasmarsi davanti ad una pietra sulla quale, supponiamo, si posò il piede sporco di un guerriero romano. Ciò mi sembra stupido; perchè? La pietra per me non è che una pietra: le cose tutte non mi parlano per il loro passato, ma per la loro parvenza presente. Il passato è la morte: il presente è la vita. Qui io guardo: qui han lavorato dodicimila schiavi... o quanti? (riaprì la Guida, ma non lesse); i leoni hanno sbranato i cristiani; occhi crudeli d’imperatori, di donne, di plebei più incoscienti