Pagina:Deledda - Sole d'estate, 1933.djvu/264

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abbiamo finalmente imprigionato le volpi con gli occhi di vetro e i fantasmi scuri e pelosi che da Santo Omobono in poi ci hanno angariato in tutti i modi: adesso, dopo una buona sculacciata col battipanni, essi meditano cupe cose, mangiandosi la naftalina di cui hanno piene le tasche. È tempo ormai di stoffe farfallesche, di ragnatele iridate: e quando il sarto ce ne porta una, alla vigilia della partenza dalla città, ci succhia il nostro ultimo sangue cattivo, come alla mosca il ragno portafortuna. Fortuna è, certo, lasciare un po’ indietro la città rombante e polverosa, voltando le spalle alla propria casa come ad una moglie esigente e brontolona.

Si va verso l’altra casa, è vero, ma questa è l’amichetta sbarazzina, che ha dormito a lungo cullata dal rumore delle onde: adesso si sveglia, spalanca gli occhi glauchi delle sue finestre e ci accoglie sbadigliando e stiracchiandosi come un gattino affamato. Pare seccata della nostra invasione: invece poi ci stringe fino a soffocarci di tenerezza e di gioia: sopporta tutte le chiacchiere, le confusioni, il disordine, l’andirivieni della nuova vita: ragazzi, ospiti, mendicanti, venditori ambulanti di cianfrusaglie, erbivendole e pescivendole, tutti sono suoi amici: persino i rospetti verdolini, in queste sere ancora