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332 la tabernaria

ad uno ad uno, come uscivano i greci dal ventre del cavallo di Troia; fa’ che si cuoca col suo succo e con quella sua crostina tenerella. Ahi, che non vorrei mai perderla di vista!

Pedante. Galante innamorato! altri amoreggia con le donne, egli con li animali morti. Teutonice, potremo lassar qui le donne sole?

Cappio. In cheste nostre ostelerie alloggiano vecchie fámine e con merdate.

Lardone. Ti sia dato al mustaccio.

Pedante. Requiescite e date pausa alla lassitudine; fate che si prestoli la cena, ché da un pauculo di tempo tornaremo.

Lardone. Avertite, non mangiate senza noi.

SCENA V.

Giacomino, Altilia, Lima, Cappio.

Altilia. Il Ciel vi dia ogni contento, anima mia.

Giacomino. E che maggior contento potria darmi la sorte che darmi voi?

Altilia. E vi sia sempre lieta e propizia ogni stella.

Giacomino. E qual piú gioconda e graziosa stella poteva oggi appresentarsi agli occhi miei? il cui splendor ne’ suoi begli occhi con benignissimi aspetti influiscono nell’anima mia tante felici e sovraumane dolcezze e preziose rugiade di gioie, che vagheggiandole non posso conoscere qual sia maggiore, o lo splendor de’ suoi raggi o quel ferventissimo fuoco che apporta seco; o qual sia piú la gioia di mirargli o l’ardor che ne succede, che non so come l’angustia del mio petto lo possa capire e ne possa godere insieme tante felicitadi.

Altilia. E qual piú chiara luce poteva oggi rappresentarsi all’anima mia, nel cui lampeggio arde la piú chiara sfera del cielo? O vita dell’anima mia, o vita dell’anima mia!

Cappio. State in cervello, padrone, che le sue parole son pregne di sostanza: è figlia di mastro ed è una dottoressa che l’impatta a Platone — ed ha le veste e tele.