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atto terzo | 265 |
capitan Martebellonio! E dove cosí di notte senza la mia compagnia? ché è meglio aver me solo che una compagnia d’uomini d’arme.
Don Flaminio. E tu dove vai? a donne ah?
Martebellonio. L’hai indovinata, a fé di Marte!
Don Flaminio. A qualche puttana?
Martebellonio. Se non foste voi a’ quai pòrto rispetto, vi farei parlar altrimente. Io a puttane, che ho le principali gentildonne della citta e tutto il mondo che spasima del fatto mio? Vo ad una signora che è ridotta a pollo pesto per amor mio, e or la vo a soccorrere.
Don Flaminio. Signora di casa, fantesca eh?
Martebellonio. E pur lá! è Callidora, figlia d’Eufranone: conoscetela voi?
Don Flaminio. (Che ti dissi, fratello? cominci a scoprir paese). Noi la conosciamo molto bene; ma dove voi conosceste lei o sua sorella Carizia?
Martebellonio. Gran tempo fa che l’una e l’altra è impazzita del fatto mio; ma a me piace Calidora per esser di ciglio piú rigido e piú severo. Mi ha chiesto in grazia che vada a dormir seco per questa notte: or vo ad attenderle la promessa. Ma s’apre la porta e veggio il parasito che viene per ritrovarmi: perdonatemi.
SCENA XI.
Leccardo, Chiaretta, Martebellonio, don Ignazio, don Flaminio.
Leccardo. Entrate, signora, in questa camera qui vicino.
Chiaretta. T’obedisco.
Leccardo. Serratevi dentro e aspettatemi un pochetto. — Capitano, sète voi?
Martebellonio. Pezzo d’asino, non mi conosci?
Leccardo. Non vi conoscea, perché me diceste che venendo la vostra persona arei sentito il terremoto: son stato gran pezza attendendo se tremava la terra, però dubitavo se foste voi.