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Pagina:Dolce - L'Ulisse.djvu/23

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PRIMO 9

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Mentre, che così pensa gli occhi gira,
     E star con l’hasta in sù la porta aßiso
     Mentre, qual buono augurio, vede, e mira,
     Onde subito fé sereno il viso.
     Lassa la mensa, et à lui si ritira,
     Perché troppo d’offenderlo gli è aviso,
     Lassando lui sù quella porta stare,
     Che molto era tenuto d’honorare.

Come gli è appresso, per la destra il prende,
     E lo abbraccia, accarezza, e se gl’inchina,
     Gli tol l’hasta di mano, e la sospende
     À una rastella, ch’ivi era vicina.
     E questo fatto, seco i passi stende,
     Mentr’ella il segue, et ci innanzi camina,
     E la conduce, ov’era incominciato
     il convito, ma in luogo più appartato.

Sopra à un ricco sedil l’adagia, e pone,
     Come io vi dico in parte più riposta,
     Acciò, quando facesse alcun sermone
     Del padre, in cui sua speme havea riposta,
     Non fosse inteso da l’empie persone,
     Onde in ruina era sua casa posta.
     E dice, amico vi ristorerete
     Prima col cibo, e poi ragionerete.

Quivi un leggiadro, e vago giovenetto
     Diede a la santa Dea l’acqua à le mani
     In un bacin d’argento puro, e schietto
     Con vaso d’oro in bei sembianti humani.
     Recati i cibi poi fur di perfetto
     Sapor, più ch’altri, od esterni, ò nostrani,
     E ’l vino in larga copia, e parimente
     Ogni cosa più rara, et eccellente.

Nè i Prodi Penelope restaro
     Di seguir il convito lietamente;
     Anzi tanto egualmente, e più mangiaro,
     Che troppo fora ad una grossa gente.
     E poi che molto satij si trovaro,
     Si trastullar con canti parimente,
     E con suoni, e con danze; i quali inviti
     Son proprio le delitie de’ conuiti.

Fecer sonar con una cetra d’oro.
     Femio, che mal suo grado à questo scese;
     E così il ventre loro ampio ristoro,
     E non picciol piacer l’orecchia prese.
     Mentre così facevano fra loro,
     A Palla disse il giovene cortese:
     E ’l pensier di costor la cetra, e ’l canto
     Però, che ’l cibo altrui mangiano intanto.

Io dico di colui, che forse il mare
     (E voglia Dio, ch’io non m’opponga al vero)
     Nasconde, e copre, ò candide ossa appare
     In qualche terra del nostro Hemispero.
     Ma s’egli si vedesse ritornare,
     O’ come caderia lor nel pensiero
     Desiderio d’haver le piante preste
     Più che debil non son d’oro, e di veste.

Ma certo à lui più vita non avanża
     Che son molt’anni, ch’è lontan da nui
     Nè se n’intende noua, che possanza
     Habbia di far, che più s’aspetti lui,
     Si, ch’amico perduta ho la speranza
     Di riveder l’aspetto, e gli occhi sui,
     Ma tu dimmi per gratia quel; che sei;
     E perch’hoggi venuto à i tetti miei.

Che forse esser potresti amico ancora
     Del mio buon padre à qualche tempestato;
     Il qual peregrinando infino ad hora,
     Se vive, in molte parti ha conversato.
     Con dolce aspetto gli rispose allhora
     Pallade, e con parlar soave, e grato:
     Io mi glorio, e mi vanto d’esser Mente,
     Che fu figliuol d’Antiloco prudente.

E signoreggiò à Tasii, che periti
     Del navigar anticamente sono;
     E son venuto à questi nostri liti
     Per mar, havendo vento amico, è buono.
     Il mio viaggio e à Temese, ove giti
     Son molti nostri con non picciol dono
     E vi vado per rame, e parimente
     Vi porto ferro splendido, e lucente.