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cosa lo scomunicò; e nondimeno in quel giorno il buon Rodrigo di Vivar si portò da onorato e valoroso cavaliere1„.

Quando il baccelliere Alonso Lopez sentì toccar questa corda andò pe’ fatti suoi senza replicare parola. Bramava don Chisciotte di vedere se il corpo che giaceva nella lettiga fosse ridotto in ossa o altrimenti, ma Sancio non vi acconsentì dicendogli: — Signore, ella ha posto fine a questa pericolosa avventura con la maggior sicurezza di tutte le altre da me vedute. Questa gente, benchè sconfitta e posta in iscompiglio, potrebbe darsi che vergognandosi di essere stata vinta da una sola persona, tornasse addietro e ci desse di che fare. Il giumento è all’ordine; la montagna vicina; la fame è pronta; non resta dunque se non che ci ritiriamo senza perdere tempo, e come suol dirsi: vada il morto alla sepoltura e il vivo alla focaccia„. Fattosi dinanzi al suo asino, pregò il suo padrone che lo seguitasse, e sembrando a don Chisciotte che Sancio avesse ragione, lo seguì senz’altre parole. Internatisi pochi passi si trovarono fra due colline in un’ampia e romita valle dove smontarono, e Sancio alleggerì il giumento, e sedutisi sopra la verde erbetta con la salsa della fame pranzarono, fecero merenda e cenarono a un punto stesso, e reficiarono il loro stomaco mercè delle fredde vivande che i signori chierici del defunto (i quali di rado si trovano alla sprovvista) si portavano bene condizionate sopra la loro mula. Successe però un’altra disgrazia, che Sancio tenne per la peggiore di tutte, e fu che mancò affatto e vino ed acqua da porre alla bocca. Stimolati dalla sete, e vedendo che quel prato in cui si trovavano era coperto da erba tutta fresca e minuta, Sancio disse quello che si leggerà nel seguente capitolo.

  1. Vedi il Romancero num. 21.