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332 don chisciotte

non ne pigli altrettante! Volgi, o miserabile e indurato animale, volgi ripeto, quei tuoi occhi di muletto ombroso nelle pupille di questi miei, che sono tante roteanti stelle, e li vedrai a filo a filo, a matassa a matassa sgorgare lagrime, facendo solchi, carriere e sentieri pei campi delle mie gôte. Muovati, volpone e mostro malintenzionato questa fiorente età mia che sta nella decina e nella unità, non avendo ancora venti anni, e vedila come si consuma e appassisce sotto la scorta di razza villana. Ella è sola mercede segnalatissima del signor Merlino che qua è presente, ch’io tale non sembri per solo fine d’intenerirti colla mia vaghezza, mentre le lagrime di beltà desolata convertono in bambagia le rupi, e le tigri in agnelle. Ah batti, batti quelle tue carnacce, bestione indomito: spoltra quella tua anima che pare nata per mangiare e per divorare; inclinati una volta a dare libertà a queste lisce mie carni, alle soavità del mio spirito, alle attrattive del mio sembiante, e se io non valgo ad addolcirti ed a condurti a termini ragionevoli, fallo almeno per quel misero cavaliere che ti sta accanto; fallo per quel tuo padrone che tiene l’anima attraversata alla gola e non lontana dieci dita dai labbri, e che non aspetta altro fuorchè barbara o dolce risposta per uscirgli della bocca o ritornargli dentro allo stomaco„. Dopo questi rimproveri don Chisciotte si tastò la gola, e volgendosi al duca disse: — Giuro, o signore, che Dulcinea ha detto la verità, mentre io tengo appunto l’anima attraversata alla gola come una noce di balestra. — Ebbene, soggiunse la duchessa a Sancio, che rispondete voi adesso? — Io rispondo, egli disse, quello che ho già detto, che alle frustate abernunzio. — Abrenuncio, dovete dire, Sancio mio, replicò il duca.

— Per carità la grandezza vostra, mi lasci stare, rispose Sancio, che ho altro adesso per la testa che badare a sottigliezze, o se le lettere vadano appuntino al proprio luogo. Costoro mi fanno stare tutto sconvolto, e queste frustate che vogliono affibbiarmi o che debbo regalarmi da me medesimo sono faccenda tale che io non so più nè quello che mi dica nè quello che mi faccia. Ma vorrei sapere dalla mia signora Dulcinea del Toboso chi è stato colui che le insegnò questi modi di pregare? Vuole ch’io mi diserti le carni a frustate, e in aggiunta mi favorisce dei titoli di animalaccio di bestione, indomito, con una sequenza di perfidi nomi che non li tollererebbe il demonio? Crede ella ch’io abbia le carni di bronzo? che importa a me ch’ella s’incanti o si disincanti? e poi che compensi mi dà? dov’è almeno una cesta di biancheria o di cuffie o di calzetti (quantunque io non ne porti) che possa mitigarmi senza passare da uno in altro vitupero? Si sa bene il proverbio che un asino carico di oro monta leggiermente sopra una montagna; che i donativi spezzano