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capitolo lxviii 601

quattrocento frustate a buon conto delle occorrenti per lo disincanto di Dulcinea. Te ne prego, te ne supplico, chè non vorrei più far teco alle braccia come altra volta, mentre so quanto pesano. Quando ti sarai ben bene frustato, passeremo il resto della notte cantando, io la mia assenza e tu il tuo coraggio, e daremo tosto principio al pastorale esercizio che dovrà diventare la gradita nostra occupazione. — Padrone mio, rispose Sancio, io non sono frate che mi abbia a svegliare sul bel mezzo del mio sonno per disciplinarmi, nè manco mi pare che dall’estremo dolore delle frustate si possa passare in un attimo a cantare di musica: mi lasci vossignoria dormire, e non mi stia a sollecitare altro di frustarmi, chè giuro sull’anima mia che non vorrei ora torcermi nè anche un pelo della casacca. — Ah anima indurita! sclamò don Chisciotte, scudiere senza pietà, pane mal impiegato, mercedi mal valutate e quelle che avesti e quelle che avevo pensato di darti! In grazia mia ti sei visto governatore, in grazia mia ti trovi con vicina speranza di essere conte o di tenere altro equivalente titolo, e non tarderà a passare quest’anno, chè io post tenebras spero lucem! — Io non intendo niente di questo, disse Sancio, e intendo solo che fino a tanto che dormo non sento nè timore, nè speranza, nè travaglio, nè gloria: che benedetto sia pure chi inventò il sonno, cappa che copre tutti gli umani pensieri, cibo che toglie la fame, acqua ch’estingue la sete, fuoco per cui fugge il freddo, freddo che tempra l’ardore, moneta generale con cui tutto si compera, bilancia e peso che rende eguale il re al pastore ed il saggio allo zotico: no, il sonno non ha in sè altro di cattivo, da quanto ho inteso dire più volte, se non che rassomiglia alla morte, passando poca differenza da uomo morto ad addormentato. — Non ti ho sentito mai, o Sancio, disse don Chisciotte, a parlare con tanta eleganza come adesso, e vengo a comprendere essere vero quel tuo proverbio: Non con chi tu nasci, ma con chi tu pasci — Oh corpo del diavolo! replicò Sancio, non sono poi io quello che infilza i proverbi, chè anche alla signoria vostra snocciolano fuori di bocca a coppie meglio che a me, e non vi è altra differenza tra i miei ed i suoi se non che quelli di vossignoria sono buttati là a tempo, ed i miei fuori di stagione, ma poi sono tutti proverbi.„

In questa guisa continuava il dialogo, quando s’intese ad un tratto sordo fracasso e noioso rumore che per tutte quelle valli si distendeva. Rizzossi don Chisciotte, e pose mano alla spada, e Sancio si rannicchiò sotto al leardo, mettendosi ai fianchi il fagotto delle armi e la bardella del suo giumento, e tremando tutto di paura. Non restò senza perturbarsi nè anche don Chisciotte per lo rom-

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