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112 | i marmi - parte prima |
Niccolò. Adunque non si debbe far nulla?
Visino. Far quello che l’uomo può, ma non se la pigliar cosí calda; basta che la passi; e non aver quella passione grande, se egli vi fosse scritto «prencipe» per «principe» o un punto in luogo di còma, o còma in luogo di due punti.
Niccolò. A ogni modo, io voglio una sera che noi ci raguniamo qui e la disputiamo di questo scrivere, appuntare e non appuntare.
Visino. Non ci son buono a cotesta faccenda; chiamate qualche un altro.
Stradino. Non piú ciance; dove è il sonetto?
Niccolò. Eccolo, e lo leggo; ed è il sonetto della rabbia:
S’alcun vien morso da rabbiosa fèra,
súbito che ’l velen al cor s’invia,
teme dell’acqua, ove gli par che sia
de la belva crudel la forma vera;
e tanto aborre quella vista altiera,
che fugge, ancóra che di ber desia,
per la membranza ch’entro al cor gli cria
la piaga, onde sanarsi unqua non spera:
pur io, che son da due folgori ardenti
d’una fèra gentil percosso a morte,
bramo sempre veder quell’alma imago;
né so con altro oggetto far contenti
gli occhi miei né sanar per altra sorte
la piaga, ché del mal medesmo appago.
Varlungo. Io vorrei qualche cosa in burla.
Visino. E’ dice il vero. Quando mi volete voi dare il mio capitolo in lode del carnieri?
Stradino. A me tocca averlo.
Niccolò. Poi che egli viene a tutti due in lode, son contento di cavarlo fuori: or togliete; e Nuto lo leggerá.