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72 i marmi - parte terza


     ma il gran nason che cola, in fra le gote
cosí sfoggiatamente sponta in fuore
che chi passa s’imbratta, urta e percuote.

Michele. Fu un bel trovato a dir mal di lei e fargli male; ma non istá giá bene.

Francesco. Che male? Io risognai quella istessa notte peggio: parevami d’esser diventato Momo.

Michele. Non fu egli Momo quel che diceva mal di tutti?

Francesco. Momo fu un certo falimbello che sapeva piú i fatti suoi che quei d’altri; e cosí son io: però mi messi a dir d’altri quel poco di male ch’io sentivo dir de’ fatti loro, non a trovar da me di dir male, ma scriver quel che dicevan gli altri.

Michele. Come dire tu eri istoriografo?

Francesco. Copista delle parole d’altri.

Michele. Potresti dire, ciò è, favellava come gli spiritati.

Francesco. Faceva in lettera quello che gli altri fanno a bocca.

Michele. Mostrami la minuta.

Francesco. Eccola: questo era il modo del mio scrivere: «Non mi ricercate se egli ha lettere altrimenti, perché non me ne intendo; s’egli è ricco, non ne son per dir altro, perché mi potrei ingannare in di grosso, perché tali si portano intorno tutto l’avere e tutto il potere. Volete voi altro che una bozza di quello che si dice? Costoro per publica voce vogliano che il fratello sia un’ombra che camini o una fantasma che vadia di notte: il poveretto comparirebbe meglio per banditor della fame che per uomo; se morissi alle suo mani, credo che in una occhiata si vedrebbe tutta la notomia nel suo corpo. La sua putifera gli scusa per interpetre per aver buona lingua; onde non sí tosto se gli dice una parola che la risponde per lui, come faceva il fante di fra Cipolla. Intanto la si lascia intendere, con quella sua pronunzia di papagallo, come egli l’ha giuntata di trecento scudi con il vendergli non so che campi di terra in India Pastinaca o al Cairo che la si voglia dire,