Pagina:Dopo il divorzio.djvu/201

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Giacobbe tornò a sedersi, senza aprir bocca; ma egli aveva destato tale terrore in Giovanna, che la giovine rimase vicina alla suocera in atto di difesa.

Allora toccò a Brontu prendersela con la madre.

— Che modi son questi? — le disse, — voi trattate la gente come... come... fossero bestie... tutti. Oggi, oggi, sì, oggi era festa. E se colui s’è voluto ubriacare? Cosa ve ne importa?

— Io sono ubriaco di veleno! — disse Giacobbe.

— Sì, di veleno! E anch’io! — riprese Brontu. — Oramai sono stufo; sono stufo di madri, di mogli, di... di... tutto, ecco. Io me ne vado, ecco. Vado a stare nel suo palazzo. Dopo tutto siamo parenti, e... e...

— E dillo dunque! — urlò Giacobbe. — Tu conti sulla mia eredità! Ah! Ah! Eh! Oh!

Ricominciò a ridere, un riso urlante, per dir così, che destava orrore. Ed anche Brontu si mise a ridere; e voleva imitare il servo, ma il suo sghignazzare pareva l’urlo d’una bestia allegra nel mese di maggio.

Allora Giovanna ebbe di nuovo paura: paura del buio incipiente, della solitudine che gravava sullo spiazzo, della compagnia di quei due uomini che il vino rendeva simili alle bestie, violenti e spregevoli. E le parve che la scomunica fosse caduta su tutti loro; sul servo che rivoltavasi ai padroni, sul figlio che insultava la madre, su lei, Giovanna, che li odiava tutti.

Zia Martina s’alzò, entrò in cucina ed accese il lume: Giovanna la seguì e preparò per la cena. Cenarono tutti assieme, e per un po’ stettero tran-