Pagina:Dopo il divorzio.djvu/260

Da Wikisource.

— 254 —


— Se in questo momento non mentisci, se non sei venuta per tendermi un’insidia col dirmi che ella è sola, sei migliore di lei.

— Perchè dovrei tenderti un’insidia? Io ho pietà di te. Ti giuro sopra la memoria dei miei morti che se tu vai da lei, stasera, non corri alcun pericolo.

— Chi vi può credere, femmine? Voi non rispettate neppure i morti.

Mattea accennò di andarsene, offesa ed irritata: egli la rattenne.

— Il cane vile! — disse lei con disprezzo. — Io ho pietà di te, e tu mi frusti. Che hai tu da rimproverarmi? Che cosa, dunque?

Sollevò la testa con fierezza, mostrando la fronte corrugata, e guardando Costantino con occhi limpidi, nuovamente pieni d’intelligenza. Egli la guardò, sbalordito che una simile donna parlasse così, che sollevasse la fronte, che osasse guardarlo in quel modo: poi si mise a ridere.

— Io vado, ora, — ripetè, — vado e torno subito. Prendo anche del vino, sebbene tu non beva. Aspettami. As-pet-ta-mi! — le impose brutalmente, vedendo che ella lo seguiva. — Non mi seccare.

Ella si fermò dietro la porta; egli uscì, ma aveva fatto pochi passi quando sentì la voce grossa di lei richiamarlo.

Tornò indietro fino alla porta socchiusa, nel cui spiraglio illuminato si vedeva il naso di Mattea ed uno dei suoi occhi ridiventati stupidi.

— Che vuoi, capra guercia?