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dole la fronte, accarezzandola sui capelli. Ma ella sentiva, che tutto ciò era falso, ch’egli, parlando, mentiva: glielo leggeva nel viso, l’udiva dal suono della voce, lo sentiva nel cuore. E il suo cuore non sbagliava mai.

Che cosa gli aveva mai fatto per essere trattata così? Nulla, nulla: e appunto perché egli non poteva rimproverarle nulla, per contenersi verso di lei in modo così inesplicabile, ricorreva spesso a piccole menzogne.

Quando si rivolgeva a lei difficilmente la guardava nel viso, aveva modi impacciati e timidi, mendicava le parole, si contraddiceva, talvolta, la risposta era così rapida, che pareva quasi preparata: o meglio, a lui, onesto, quella bugia riusciva così rincrescevole, che cercava di buttarla fuori tutta d’un fiato, per sottrarsi il più presto possibile a quel tormento.

Qualche volta anche, per farla tacere, per impedirle di parlare, per ricacciare quasi la domanda, che stava per spuntarle sulle labbra, egli le prendeva la testa colle mani, avvicinava la bocca alla sua bocca, la soffocava di baci: e quando, stordita e sorridente, si riaveva, non lo trovava più vicino a lei. Egli era già partito. Ed ella indovinava allora il perché di quella furia di carezze, di quella foga affettuosa, di quella finzione.

E quel sorriso, quella gioia, quella felicità erano sempre seguiti da un lungo scoppio di pianto.

Ed egli non tornava ancora. L’ora oramai era così tarda che forse, presentarsi quasi a metà della festa in casa della Marchesa Costanza, poteva sembrare una sconvenienza.

Ella era dunque decisa a dar ordini al cocchiere di staccare i cavalli, ed alla cameriera di recarsi nella sua camera per aiutarla a svestirsi.

Allungò la mano e toccò il campanello, mentre coll’altra si passò in fretta il fazzoletto sugli occhi per nascondere una lagrima.

Ma proprio in quel punto entrò il cameriere con un vassoio d’artgento nella mano.

Sul vassoio posava un piccolo astuccio di velluto e una lettera.