Pagina:Drigo - La Fortuna, Milano, Treves, 1913.djvu/266

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Elmìr, cioè semplice principessa nata da morganatiche nozze, Biancofiore aveva dovuto rinunciare a qualche illusione. La sua splendida bellezza attirava come sempre gli omaggi, ma erano omaggi un po' differenti da quelli a cui era abituata quando sedeva sul palco reale, avvolta nel verde manto stellato; in che cosa consistesse la differenza, la fanciulla stessa sulle prime non sapeva spiegare: erano sfumature, un rispetto meno profondo e meno vigile, un'eccessiva audacia nei madrigali, che mal velavano lo scopo obliquo. La lente le aveva detto il resto: volevano il suo amore, ma non la sua mano, i suoi baci, ma non il suo cuore. Offesa e ferita, Biancofiore disse ad Elmìr:

— Elmìr, questi uomini perdono la tramontana. Quando mi sapevano ricca e potente si pavoneggiavano davanti a me come tacchini, strisciavano ai miei piedi come schiavi, erano pronti a qualunque viltà pur di strapparmi un sorriso, ad affrontare il ridicolo per un mio capriccio. Ora che mi credono povera, mi dànno uno spettacolo ancora più nauseante: ritengono che una fanciulla povera possa considerarsi una preda sicura spettante al più sfrontato. Come posso io scegliere fra questi uomini?

Elmìr sollevò i grandi occhi pensosi in faccia a Biancofiore, e rispose:

— La donna e l'ubbriachezza sconvolgono il cervello agli uomini: entrambe li inducono a svisare la loro vera natura. Indossa abiti maschili, studia questi principi da uomo a uomo,