Pagina:Drigo - La Fortuna, Milano, Treves, 1913.djvu/320

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covava il brindisi, l'altro perchè mangiava per quattro, non avevano ancora rivolte parola alla loro dama mortificata e impettita. Finalmente il Parroco si ricordò.

— Desidera un po' di dolce, signorina? Questa torta è squisita. Signor Giacomino, vuol passare il dolce alla signorina? Signor Giacominoooo!...

L'interpellato si scosse come da un letargo, e presentò il vassoio a Dorotea col più cerimonioso dei «pardon».

Il volto di lei si rischiarò.

— Oh grazie! mille grazie! non s'incomodi!

Ma il sorriso mellifluo che le era spuntato sulle labbra gelò ad un tratto, parve pietrificarsi in una smorfia di sorpresa e di rabbia. La forchetta che infilava un pezzo di torta tremò così che la crema cadde a larghe chiazze sulla gonna di merinos grigio. Attraverso alle teste dei convitati, al capo opposto della stretta e lunga tavola fiorita, ella aveva scorto d'improvviso sua sorella Adelaide e la cravatta celeste: la cravatta celeste fiammeggiante di mille fiamme diaboliche.

— Ah! sfacciata! sfacciata!

Il buon parroco di Castelluzzo e il signor Giacomino attribuendo alla crema rovesciata il turbamento della zitella, le erano d'attorno coi tovaglioli inzuppati d'acqua.

— Non importa, non importa, non è nulla! — riescì a dire Dorotea, livida di rabbia; e si rimise a sedere rientrando tosto nel contegno dignitoso che una donzella par sua sapeva conservare