Pagina:Drigo - La Fortuna, Milano, Treves, 1913.djvu/344

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sala. Entrò nello studio di Don Antonio, s'inginocchiò sotto il gran Crocefisso d'avorio che nella penombra pareva quasi livido.

Sentiva dentro di sè una gran pace. Le speranze, i terrori, i rancori, si acquetavano come se qualche cosa su di lei fosse passato, di più grave e più forte.

Dopo qualche minuto riattraversò la sala, si accertò in punta dei piedi che il padrigno dormisse: dormiva sempre.

Allora, sempre lentamente, senza affrettarsi, passò in cucina, riempì un gran braciere di carbone, pazientemente lo accese, soffiando, e facendo volar qua e là le faville. Quando il carbone fu acceso, portò il braciere nella sua stanza e vi si rinchiuse.

Trasse dall'armadio la cravatta celeste, accuratamente avvolta nella carta velina; la spiegò, la cinse, ne rifece il nodo due volte con grande attenzione, si ravviò i capelli, si guardò nello specchio, rivolse a sè il ritratto di sua madre.... si stese sul letto....

— ....Che pace! che pace! non più soffrire! non più pensare!... dormire finalmente!...

La stanzetta si popolò di ombre.

— ....O mamma, guardami almeno morire!

Ma per una crudele ironia, erano proprio gli esseri che ella aveva voluto fuggire quelli che tornavano intorno al suo letto e si curvavano pietosamente su di lei nell'ultima ora della sua vita.

....Ecco Suor Paolina con così chiari occhi tranquilli, e Suor Maria olivastra e irrequieta,