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Grozio se n’era fuggito nella famosa cassa da libri, che si era trascurato di visitare.

Dall’altro canto ciò parve di buono augurio a Van Baerle, che quella stanza gli fosse data per alloggio; perchè alla fin fine, secondo la sua maniera di vedere, non avrebbero mai dovuto fare abitare ad un secondo piccione la colombaia, donde un primo si fosse facilmente involato.

La stanza è istorica; ma non perderemo il nostro tempo a descriverla per filo e per segno. Salvo un alcova che era stata appositamente fatta per la signora Grozio, l’era una stanza da prigione come tutte le altre, forse un po’ più sfogata; cosicchè avevasi dalla finestra ferrata una incantevole veduta.

D’altronde l’interesse della nostra storia non è in un certo numero di descrizioni d’interni; e poi per Van Baerle la vita era tutt’altra cosa che un apparecchio respiratorio. Il povero prigioniero amava al di là della sua macchina pneumatica due cose, di cui soltanto il pensiero, questo libero viaggiatore, potevagli ormai fornire il fittizio possesso: un fiore e una donna, l’uno e l’altra da lui per sempre perduti.

Ingannavasi per bonomia il buon Van Baerle. Dio che avealo nel momento che andava al patibolo, riguardato col sorriso di padre, Dio riserbavagli nel seno stesso della sua prigione, nella stanza di Grozio, l’esistenza la più avventurata che sia mai toccata in sorte a un tulipaniere.

Una mattina stando alla finestra a respirare l’aria fresca, che saliva dal Wahal, e ad ammirare in lontananza dietro una foresta di cammini i molini di Dordrecht sua patria, vide dei piccioni volare in frotta,