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Introduzione | lix |
«Il sig. Eminescu è impazzito. La prego di voler far di tutto per liberarmene, giacchè è pericoloso».
Eminescu accumulava l’una sull’altra parole senza senso, sforzandosi di aggrupparle in esametri e pentametri e di farle rimare. Non riconosceva gli amici corsi a vederlo. Calmatosi alquanto e domandato se fosse in collera con qualcuno, rispose di no. A chi per consolarlo lo assicurava che presto l’accesso gli sarebbe passato e sarebbe guarito, rispondeva con profonda tristezza che quella era una malattia dalla quale sentiva che non sarebbe guarito mai; che aveva dimenticato tutte le lingue straniere che conosceva e non sapeva più nulla di nulla. Dopo di che, ricadde nel suo stato penoso d’incoscienza e ricominciò a recitar pentametri ed esametri senza senso.
Il Maiorescu gli venne in soccorso colla sua solita generosità e lo fece internare a Döbling (Austria) nella casa di salute del dott. Obersteiner, dove si rimise presto, ma non fu più l’Eminescu di prima.
Dopo un viaggio di piacere in Italia, tornò in patria e fu nominato sottobibliotecario alla Biblioteca Universitaria di Iassy. Ma il male gli serpeggiava sempre nelle vene e nel 1886 gli amici furono costretti a internarlo nell’Ospizio del Monastero di Neamtz. Ne uscì poco dopo, ma ridotto un’ombra, senza più volontà nè iniziativa. Fisicamente, coi baffi e la barba rasi, pareva ringiovanito. Rideva, era allegro, fumava con molto gusto un mozzicone di sigaro e si mostrava gentile con tutti e sensibile alle dimostrazioni d’affetto, cui a Botosciani, dove la sorella Enrichetta lo aveva accolto, tutti lo facevano segno. Ma, moralmente, era ormai l’ombra di sè stesso. I. Păun che lo vide in quei giorni racconta di averlo visto errare in luoghi fuori di mano, perdersi tra i viali del giardino Vârnav, fermarsi di botto ad ascoltare i canti degli uccelli, restar ore intere come incantato a guardare un maggiolino, poi chinarsi a raccoglierlo, metterlo sulla palma della mano e starlo a