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E la voce del Papa non tardò molto a farsi udire. Egli parlò il 17 giugno, in occasione dell’anniversario della sua esaltazione al Soglio pontificio, rispondendo agli augurii, ma nel suo discorso si limitò a protestare in genere contro le spoliazioni, e soprattutto contro i solenni funerali fatti in Alessandria ad Urbano Rattazzi, morto in quei giorni, «da sacerdoti più aulici che ministri di un sovrano onnipotente». I suoi fulmini Pio IX serbavali a più tardi, a quando cioè la legge fosse stata applicata.

La legge fu firmata da Vittorio Emanuele il 19 a Torino. Pochi giorni dopo il gabinetto rassegnava al Re le sue dimissioni, e nel nuovo ministero di cui fu presidente Marco Minghetti, entrava come ministro della marina il capitano di vascello Saint-Bon, nuovo al Parlamento e alla politica, il quale meravigliò il paese per le larghe vedute, e seppe subito guadagnarsi la fiducia del Parlamento.

Le vicende della legge sulle corporazioni religiose mi ha fatto trascurare molti altri avvenimenti della prima metà del 1873.

Nel mese di febbraio, dopo lunghe trattative corse fra gli uomini più eminenti della opposizione, si creava a Roma l’associazione elettorale-politica della sinistra parlamentare con Francesco Crispi, il Rattazzi, il Pianciani ed altri, e mentre questo circolo sorgeva vitale, spengevasi quello «Cavour» dopo un vano tentativo di fusione col «Circolo Nazionale». Esso spengevasi per la inerzia del partito monarchico, che già si manifestava; sintomo di decadenza che doveva portare, tre anni dopo, alla irreparabile caduta di quel partito dal Governo. Il Minghetti non lo credeva, anzi era convinto che una volta giunto al potere, vi si sarebbe potuto mantenere lungamente.

Il 12 febbraio giunse a Roma la notizia che Amedeo I aveva abdicato nobilmente, sentendo di non poter più regnare nei limiti della costituzione. La stampa di Roma fu unanime nel lodare l’atto del giovane Re, e la cittadinanza tutta trepidò per lui e per la duchessa d’Aosta finché non li seppe al sicuro alla corte del Re di Portogallo. La lettura del messaggio diretto dal Re alle Cortes non fece altro che aumentare le simpatie e l’ammirazione per il Principe sabaudo, che aveva saputo in un lontano paese tenere alti quei principii, che erano la religione dell’avo e del padre suo. Poche sere dopo il re Vittorio Emanuele andava all’«Apollo» ove si dava il Manfredo; appena comparve fu accolto da una ovazione spontanea e solenne. Nel teatro non si sentiva gridare altro che: «Viva il principe Amedeo! Viva il secondo re galantuomo!» Vittorio Emanuele per tre volte dovette affacciarsi al palco per ringraziare. Egli era certo commosso e orgoglioso di aver trasfuso con l’esempio nei proprii figli quella lealtà di carattere e di propositi, che valse a lui il lusinghiero appellativo di galantuomo.

Il conte Pianciani, funzionante da sindaco, inviava al principe Amedeo un telegramma per esprimergli che i romani erano orgogliosi di averlo cittadino e di annoverarlo fra i Principi di Casa Savoia, e il generale Lipari, comandante la guardia nazionale, pure gli telegrafava dicendogli che la guardia nazionale di Roma lo salutava col nome di duca d’Aosta, che riprendeva dopo avere aggiunto gloria alla Casa di Savoia.

La Camera, a unanimità di voti, aveva ripristinato l’appannaggio del principe Amedeo, e il presidente Biancheri gli comunicava la votazione con la seguente lettera:

«Io ascrivo a singolare fortuna di aver debito di trasmettere alla A. V. questa risoluzione dettata dal sentimento del patriottismo e dell’ammirazione che la condotta di V. A. desta in ogni animo onesto. Scendendo volontariamente da un trono dove era salita per rendere un grande servizio alla causa della civiltà e della libertà, l’A. V. ritrova la patria che l’accompagnò sempre con i suoi voti e con i suoi augurii, e che nella A. V. ritrova oggi il soldato fedele, il degno Principe di Casa Savoia»,