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del Concorso Governativo: «Desidererei di veder terminare presto e bene questa questione, poiché ad ogni cambiamento di ministero essa subisce un ritardo». Intanto oltre i larghi sussidi che il Re fece dispensare dalla Real Casa, e che aumentavano ogni anno, inviava 3000 lire agli Asili Infantili e 6000 lire all’on. Ruspoli perché li dispensasse ai poveri.

La Regina non era a Roma il primo di gennaio e dal pranzo furono escluse le signore, ma ella tornò il giorno 4, non ancora rimessa in salute, sempre pallida e magrissima. Le voci allarmanti corse sullo stato di lei avevano reso necessario che abbreviasse il suo soggiorno a Bordighera e ricomparisse a Roma. I giornali di tutta Italia non si peritavano a stampare mille particolari sui disturbi nervosi cui andava soggetta, e che mettevano in apprensione gli amici della monarchia. La Regina, che non ha per nulla nelle vene il sangue dei Savoia, capi che un prolungato soggiorno in una villa sulla Riviera poteva avvalorare quelle voci e accrescere le apprensioni, e torno subito alla capitale, benchè godesse di una grande pace nella bella villa Bischoffsheim.

Il ritorno di lei fu un raggio di sole, che illuminò Roma, e una folla di gente andò a riceverla alla stazione a metà della notte, e le dette un caloroso saluto, accompagnandola fin sulla piazza del Quirinale.

La Regina si rimise più lentamente qui, ma la soddisfazione di aver compiuto un dovere, le dette la tolleranza necessaria a sopportare i disturbi nervosi, che ne fiaccavano il delicato organismo.

Non erano quelli momenti lieti per il paese, nè per la monarchia. Una agitazione in pro dei paesi italiani ancora soggetti all’Austria, invadeva l’Italia. Come un tempo: «O Roma o morte!» era stato il segnale di ogni moto ribelle; allora il grido era divenuto: «Trento e Trieste!» L’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina all’Austria, il trionfo del principio di nazionalità nei paesi dei Balcani avevano prodotto quella agitazione, che poneva in serio impiccio il Governo di Sinistra, il quale dovendo impedire ogni moto per un riguardo all’Austria, era costretto a mettersi in urto con i proprii amici

Matteo Renato Imbriani prendendo argomento appunto dall’avere il ministro dell’interno impedito con la forza che a Campo Verano, in occasione dei funerali del generale Avezzana, presidente dell’associazione in pro dell’Italia irredenta, comparissero la bandiera ed altri emblemi di quella associazione, pubblicò un opuscolo nel quale asseriva che in una conversazione avuta coi ministri Depretis e Miceli e col segretario generale Bonacci essi gli avevano detto che desideravano veder riunita all’Italia ogni terra italiana, ma che più d’ogni altra cosa era mestieri non dar pretesto all’Austria di aggredirci. La Gazzetta Ufficiale con una nota smentì le asserzioni d’Imbriani, e Menotti Garibaldi pubblicava nella Riforma, che già aveva riprodotto, insieme con la Capitale, le rivelazioni contenute nell’opuscolo, una lettera con la quale assicurava che avendo assistito alla conferenza al palazzo Braschi attestava come le parole dette dagli uomini del Governo fossero decise ed energiche per impedire qualunque atto, che potesse far sorgere complicazioni internazionali.

Imbriani rispondeva nella Libertà: «La dichiarazione ufficiale è necessità di ufficiale menzogna». A Menotti Garibaldi poi scriveva nello stesso giornale: «Poichè avete creduto dovere apertamente manifestare la vostra disapprovazione per la pubblicazione del mio scritto - Per la verità — io mi rivolgo alla vostra lealtà perchè affermiate anche apertamente per quello che è a conoscenza, non esservi sillaba nello scritto stesso che non sia l’espressione più sincera della verità».

Naturalmente questi malintesi dovevano nascere per ragione inevitabile. Il passato degli uomini che erano al Governo, li teneva legati ai partiti estremi; la necessità di far rispettare l’ordine e di mantenere buoni rapporti con le potenze costringevali ad atti che i loro amici dovevano biasimare.