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assetto completo il lazzaretto di Santa Marta, affinchè fosse pronto per qualsiasi evenienza. Ma Roma rimase incolume, mercè le misure adottate, e la severa applicazione dei regolamenti sanitari. In quell’anno molte frutta finirono nel Tevere, e fu proibita l’introduzione del mosto in città.

Il Re con un atto generoso inviò al sindaco di Roma 100.000 lire, affinchè costituisse un comitato a favore dei piccoli comuni colpiti dal colera. La Giunta, spronata dall’invito del Sovrano, si costituì subito in comitato ed elargì 40.000 lire. Essa raccolse in poco tempo più di mezzo milione e giorno per giorno inviava le somme ai comuni più bisognosi. Senza tanto scalpore e lavorando da sola, la Giunta compì in quel tempo di sventura opera altamente benefica.

Alla fine d’agosto, senza nessun apparato, si inaugurò il Teatro Drammatico Nazionale, costruito a spese di alcuni signori romani, i quali avevano fatto il tentativo di rialzare le sorti del teatro drammatico italiano. Il Teatro Nazionale piacque agli invitati della prima sera, che udirono recitare un monologo dalla Glech e una conferenza dal Leigheb, e piacque anche al pubblico quando fu aperto con la compagnia Pilotto. In quest’anno e nei successivi il nuovo teatro ebbe molta voga, ma poi il pubblico lo abbandonò, ritornando al Quirino e al Valle.

Col vento anticlericale che soffiava e che aveva preso forza nei comizii di Milano e di altre città, fu facile a Menotti Garibaldi di riunire a Mentana 7000 persone per la commemorazione patriotica, alla quale egli aveva dichiarato, con un proclama, di voler dare significato di protesta contro il Vaticano.

Appena il ff. di Sindaco, duca Torlonia, tornò dal suo viaggio disse di volersi rimettere con lena al lavoro e nonostante il quartiere per la sposa non fosse anche pronto, egli veniva ogni mattina da Frascati e passava gran tempo in Campidoglio. Ma le buone disposizioni di lui furono paralizzate da una sequela di pettegolezzi, così egli si dimise e scrisse una lettera nella quale assicurava di non poter desistere dal suo proposito perchè troppo soffrivano gl’interessi della famiglia dovendo occuparsi di quelli della città. La crisi fu lunga, ma finalmente il duca Torlonia si lasciò vincere dalle preghiere della Giunta e del Consiglio comunicategli con lettera dall’assessore Bastianelli, e ritirò le dimissioni.

Un altro fatto appassionò Roma e fu largamente discusso nei giornali della capitale: Il capitano di vascello Turi in una lettera al Popolo Romano aveva biasimato la disposizione data dal ministro della guerra di sospendere i lavori del forte Rocchetta, a Spezia. I giornali d’opposizione lodarono l’ufficiale; l’ammiraglio Guglielmo Acton, che era il superiore diretto del Turi, lo mise agli arresti e riferì al ministro della marina, il quale pose l’ufficiale superiore in disponibilità.

Per il 20 settembre di quell’anno il Re, rispondendo al telegramma speditogli a Monza dall’assessore Bastianelli, aveva qualificata Roma «intangibile conquista.» La felice espressione del Sovrano era stata raccolta in ogni parte d’Italia e l’affetto per lui, che aveva affermata l’intangibilità di Roma, era anche aumentato. Si volle dunque fargli una affettuosa dimostrazione al suo ritorno alla capitale, e quella dimostrazione fu promossa dalla Società dei Reduci Italia e Casa di Savoia. Tutte le associazioni con bandiere e musiche erano ad attendere il Re alla stazione, e quando salì in carrozza, questa fu in un attimo circondata da una folla plaudente, che voleva staccare i cavalli. Il Re dovette alzarsi sulla carrozza pregando di non farlo, ma la dimostrazione seguì i Sovrani correndo fino al Quirinale, e con gridi entusiastici li costrinse più volte a comparire sul balcone.

Oltre la morte del principe Torlonia, molti altri lutti funestarono il patriziato romano. Nella villa del principe Pio di Savoia sul lago Maggiore morì la bella principessa d’Antuni, dopo aver dato alla luce il suo secondo bambino; nella villa di Frascati si spense don Marcantonio Borghese,