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deltà di Ras Mangascià, di Ras Alula e di Ras Agos e con essi pattuiva il mantenimento dello statu quo, il riconoscimento del nostro possesso di Sara e Okulle Kusai, già ceduto a Masciascià dal trattato di Ucciali, e l’accettazione della linea del Mareb e Belesa in possesso dell’Italia.

I capi tigrini scambiavano inoltre col governatore la promessa di cordiale amicizia e protezione delle reciproche proprietà e sudditi.

Per il momento dunque non v’era più ragione di vivere in ansia per la sorte della colonia, per la quale pareva dovesse incominciare un’èra di pace, tanto che si potè abolire colà lo stato di guerra e il blocco della costa. Ma siccome è ben raro che mentre la Camera è aperta non vi siano sempre nuovi motivi di agitazione, uno potente ne fu offerto dalle dichiarazioni del conte Kalnoky alle Delegazioni Austro-Ungariche. Le sedute di quel consesso sono segrete, dunque facile riesce svisar le parole di un ministro quando si conoscono soltanto per mezzo d’indiscrezioni. 11 conte disse che non si era ancora trovata la risoluzione della quistione del Papato, e aggiunse parole che escludevano l’ingerenza dell’Austria-Ungheria nella quistione, e dimostravano quanto quella potenza fosse unita al nostro paese. Il partito avanzato si fermò soltanto alla prima parte delle dichiarazioni e subito il Bovio credè opportuno d’interpellare il Governo sulla politica ecclesiastica. Il presidente del Consiglio era assente dalla Camera e gli fu telefonato per sapere a quando fissava lo svolgimento dell’interpellanza. Egli la fissò per una seduta successiva. L’on. Nicotera volle aggiungere che credeva interpretare il pensiero dell’on. Rudinì e di tutto il Gabinetto dicendo che non ammetteva possibili le dichiarazioni del conte Kalnoky ed aggiunse: «Per noi la quistione romana non esiste».

Questo pistolotto inasprì la questione e pochi giorni dopo, allorchè il Bovio svolse l’interpellanza, avvenne una specie di battibecco fra l’on. Crispi e il ministro dell’Interno. Il presidente del Consiglio rimise la questione in carreggiata e ottenne un voto di fiducia. Poi tutti si accorsero che alla discussione e alle proteste mancava la base, perché le dichiarazioni del Kalnoky invece di essere ostili, erano più che benevole per l’Italia.

L’on. Luigi Luzzatti, ministro del tesoro, fece in sul finir dell’anno l’esposizione finanziaria, che era complicata quanto mai. Egli annunziò che il bilancio del 1892-93 si sarebbe chiuso con un avanzo di 9 milioni; quello del 1891-92 con un disavanzo di un solo milione, che doveva esser largamente coperto con le economie nei consuntivi. Più che tutte quel cifre sciorinate alla Camera e fra le quali pochi riuscivano a raccapezzarsi, consolò la dichiarazione che l’opera salutare del Governo consisteva nel purgare il bilancio da due peccati capitali: l’eccessive spese e l’eccessiva estimazione dell’entrata.

Il ministero Rudinì-Nicotera aveva inalberata la bandiera delle economie appunto per acquistare popolarità, poiché il paese rimproverava a quello precedente il fasto.

In autunno era morto il senatore Pietro Rosa, direttore degli scavi, che abitava da lunghi anni alla casetta del Palatino; il 13 dicembre si spengeva un altro senatore insigne, Carlo Cadorna, già ministro di Carlo Alberto e presidente del Consiglio di Stato. Il fratello generale, e il nipote lo assisterono amorevolmente fino al momento estremo. Ebbe funerali sontuosi e alla casa in via Monserrato ove spirò, andarono ad iscriversi tutte le notabilità italiane, che erano a Roma. Al Senato e alla Camera gli fu fatta una bella commemorazione lodando l’integrità di lui e la vasta cultura.

Con l’intervento del Re e della Regina, si inaugurò il ponte che porta il nome di Margherita. Era una giornata piovosissima e il sindaco prese tutta la pioggia facendo a capo scoperto dinanzi