Pagina:Emma Perodi - Roma italiana, 1870-1895.djvu/88

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pofabbrica, e benemerito dei suoi lavoranti; uno dei deputati, don Onorato Gaetani, dalle cui labbra uscirono parole nobilissime e che seppe parlare agli operai non solo dei loro diritti, ma anche dei loro doveri. Ma le ire della Capitale si spiegavano perché il Tavassi, che aveva promosso il congresso, era un operaio monarchico, e allo stesso partito apparteneva il Grandi.

Questa fu la scintilla che infiammò i rossi, i quali subito indissero un meeting al teatro «Corea,» per il quale la questura proibì l’affissione dei manifestini.

Il presidente Bobbio, appena riunito il meeting protestò contro il congresso che si teneva all’«Argentina» e volle negare la parola a Edoardo Arbib. Egli rispose di essere operaio, perché lavorava dalla mattina alla sera, ed era andato lì appunto per difendere il congresso. Il famoso Luciani, che abbiamo veduto entrare a Roma a cavallo il 20 settembre 1870, e che vedremo in seguito agitatore continuo, e poi condannato, volle che l’Arbib parlasse, e questi espose i lavori del congresso, concludendo che non aveva in mira altro che il miglioramento delle condizioni degli operai. Luciani non volle credergli e disse che quelli dell’Arbib erano sofismi. Costanzo Chauvet prese la parola per dichiarare che il congresso dell’«Argentina» e il meeting del «Corea» erano due accademie, e terminò il discorso proponendo un ordine del giorno così concepito: «Il meeting degli operai, di cui fu arbitrariamente impedito l’annuncio dalla questura, riconoscendo che nel Congresso operaio dell’«Argentina» non eravi rappresentata che una debole minoranza delle Società Operaie Italiane, e che nel medesimo l’elemento operaio era in grande minoranza, protesta contro le deliberazioni prese in quell’assemblea.»

Luciani propose un’aggiunta, Chauvet non volle cedere e l’ordine del giorno di lui fu votato.

Ho parlato della quistione della università di Roma, di cui il Parlamento doveva occuparsi e infatti se ne occupò. L’università di Roma e quella di Padova non erano pareggiate alle altre del Regno, ma se l’università di Roma era ordinata assai male, non così avveniva per quella di Padova, ordinata dal Governo austriaco su un concetto tutto moderno. La discussione sulla università romana fu aperta fuori del Parlamento dal Tommasi-Crudeli e dal Blaserna, chiamati a insegnare qui. Essi volevano che l’ateneo romano divenisse una scuola modello, con pochi professori fra i più stimati, e accanto a loro una schiera di liberi docenti, per creare un movimento scientifico, una vera vita intellettuale, una continua gara, nella quale gl’inetti e gl’inerti rimanessero vinti. Per provare che confusione fosse qui e con quali criteri il ministro Correnti avesse provveduto all’università chiamandovi a insegnare una turba di professori, basti dire che la facoltà di filosofia e lettere contava diciassette professori e uno studente.

Il Correnti non si sentiva forza da proporre una riforma generale delle università come i più reclamavano, e si contentò di proporre alla Camera che le due università di Roma e di Padova fossero pareggiate alle altre. Tutta la riforma si ridusse a stabilire che lo stipendio dei professori che già v’insegnavano, fosse pareggiato a quello delle altre, e ad abolire la facoltà di teologia, grave errore, gravissimo, perché equivaleva ad abbandonare il clero nelle mani dei gesuiti, perché equivaleva a lasciare che il Vaticano creasse un clero ubbidiente ciecamente ai suoi voleri e ciecamente preparato ad approvare ogni Dogma, dopo che si era veduto che soltanto il clero educato nei paesi ove l’insegnamento teologico era in mano dello Stato, si era opposto al Dogma della Infallibilità.

In quella discussione il Bonghi fece viva guerra al Correnti, ma il ministro vinse appoggiandosi sulla sinistra, alla quale prometteva l’istruzione obbligatoria, impegnandosi a presentare dentro l’anno il disegno di legge sulla riforma universitaria.