Pagina:Eneide (Caro).djvu/348

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[170-194] libro vii. 307

170Avean poche vivande; e quelle poche
Gran forme di focacce e di farrate
In vece avean di tavole e di quadre,
E la terra medesma e i solchi suoi
Ai pomi agresti eran fiscelle e nappi.
175Altro per avventura allor non v’era
Di che cibarsi. Onde, finiti i cibi,
Volser per fame a quei lor deschi i denti,
E motteggiando allora, O, disse Iulo,
Fino a le mense ancor ne divoriamo?
180E rise e tacque. A questa voce Enea,
Sì come a fin de le fatiche loro,
Avvertì primamente, e stupefatto
Del suo misterio, subito inchinando
Disse: O da’ fati a me promessa terra,
185Io te devoto adoro: e voi ringrazio,
Santi numi di Troia, amiche e fide
Scorte degli error miei. Questa è la patria,
Quest’è l’albergo nostro e questo è ’l segno
Che ’l mio padre lasciommi (or mi ricordo
190De gli occulti miei fati), Allor, dicendo,
Che sarai, figlio, in peregrina terra
Da fame a manducar le mense astretto,
Fia ’l tuo riposo: allor fonda gli alberghi,
Allor le mura. Or questa è quella fame,


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