Pagina:Enriques - Problemi della scienza, 1906.djvu/345

Da Wikisource.

estensione della meccanica 323

berazione alla quale abbiamo subordinato una serie di atti, e quindi in connessione coi caratteri permanenti della nostra personalità. All’opposto invece crediamo di avere meno responsabilità nelle azioni improvvise, imputandoci tuttavia quanto ad esse, di non esserci premuniti contro il motivo sopravveniente (tentazione) coll’inibirne l’effetto sul nostro volere; per modo che questa responsabilità svanisce quasi ai nostri occhi se l’azione fu mossa da un motivo forte ed inaspettato.


Tutto ciò è perfettamente conforme al comun senso degli uomini e, come si è detto, è necessario alla vita pratica, che esige la fiducia nel nostro stesso volere.

Ma in tutto ciò non si trova nulla di contrario alla tesi deterministica della prevedibilità dei fatti volontarii. Contraddizioni apparenti si possono trarre soltanto da un modo di ragionare vizioso, affetto di trascendentalismo.

In due modi si fa entrare qualcosa di trascendente.

In primo luogo coll’applicare alla libertà del volere un vecchio argomento di Locke e di Leibniz, che ha invero un significato originario diverso.

Se si concede un secondo grado di volizione, consistente nel «voler volere», si deve accordarne un terzo e poi un quarto e così via fino all’infinito.

Da questo infinito scaturisce per taluno un concetto trascendente della volontà che determina sè stessa, onde l’arbitrium indifferentiae per cui la previsione riesce impossibile. Ma l’argomento poggia sopra un equivoco.

Quando si dice che possiamo «voler volere», la volontà presa come soggetto, non è la stessa cosa della volontà formante oggetto della volizione. La volizione di secondo grado non implica dunque il non senso di una volontà che determina sè stessa, bensì il fatto psicologico che un atto del volere può venire subordinato ad un altro precedente. Ora, evidentemente questa subordinazione (che è del resto soggetta in parte alle contingenze esteriori) non può andar oltre un numero finito di gradi, dato il tempo richiesto dall’atto del volere. Non è dunque neppure il caso di discutere il precedente istrumento dialettico (preso in prestito dalla Teologia naturale) e di rilevare che da una serie infinita di cause non si può argomentare, senza contraddizione, ad una causa prima che sia causa di sè stessa.

Un altro modo di argomentare, in apparenza più profondo, introduce viziosamente un concetto trascendente della personalità umana. La frase «io posso fare e volere secondo mi piace, sia pure in contrasto coi motivi agenti sulle mie determinazioni»1 esprime una rappresentazione della persona che agisce, come al di fuori della serie delle sua stesse volizioni.

Ora, se ad una frase siffatta si vuole accordare un senso intelligibile,

  1. Cfr. la disputa vivace descritta da A. Herzen: «Le cerveau et l’activité cérébrale». Paris, F. B. Baillière, 1887.