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146 odi

XLI

L’umanitá

(1791)

     Dono del cielo, tacita quiete
stanca occupava le fere e gli uomini;
     sol io, figlie del dí, cure mordaci
nutriva in seno a languida vigilia,
     5e udia nevoso cigolare il vento
nella finestra e stridere per l’atrio;
     quando donna mi apparve, incoronata
il crin di sacre foglie pacifiche.
     Bell’era, quale in puro ciel la luna,
10se tinge il volto candido, porpureo,
     mostrava il sen sempre lattante e bianco,
scendeale veste docile dagli omeri.
     Ardea pietosa, avea languente il guardo
e odor spirava d’eterea ambrosia.
     15Sciolse la voce e dal labbro soave
mi scese un lento tremito nell’anima.
     — Dorme — ella disse — il mio cantor tranquillo
mentre arde Europa! Eh, dèstati, ravvisami!
     Umanitá son io, dei regi un giorno
20cura, or del solo popolo delizia,
     sempre ai mortali generosa madre,
avari figli senza gratitudine.
     Gli sgrido invano. Di un’iniqua forza
vantano i dritti, rabbiosi fremono,
     25corrono all’armi, alla vendetta, a morte...
Aimè! che fate? Miseri, fermatevi!
     Prendi la cetra; intuona un inno; corri;
son tuoi fratelli... Ma, oh Dio, qual strepito!