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idilli 347

     errano, e tutte mie, trecento agnelle,
e pei prati di Tèa mugghiano venti
vacche macchiate, cui saltellati dietro,
speranza della greggia, otto vitelli.
Né al freddo verno, né all’estate ardente
fresco latte mi manca. E i versi io canto
soavemente, che dettommi un giorno,
caro alle muse ed al Sebeto, il vecchio
di Cantalupo. Né cosí deforme
son da fuggirmi: mi specchiai nell’onda
ieri di un fonte, né di me piú bello,
benché amato da te, mi parve Aminta.
Deh! non fuggirmi e non sdegnar pietosa
meco abitare una capanna, i cervi
ferir con l’arco, circondar di reti
il comun gregge e, del tuo Tirsi al fianco,
Pane nei boschi oggi imitar cantando.
Pane fu il primo, che piú canne aggiunse
con molle cera e die’ lor fiato; Pane,
che, un dì deluso da Siringa, aborre
l’ingrate ninfe e la pietá protegge.
Né paventar che il labbro, sacro ai baci,
offenda il suon delle recise canne.
Ho una zampogna, che formò di sette
ineguali cicute il buon Cimante,
e a me la die’ quando in Arcadia ei vinse
dell’estinto Nivildo il flauto agreste
nella gara del canto: a me la chiese
Fille e l’ottenne, e per sei lune apprese
dei nostri nomi a risonar la selva.
Ti serbo inoltre due colombe, avvezze
su le spalle a volarmi, e fra le labbra
l’ésca a beccare impazienti; e un nido
di mal-piumate tortorelle: in cima
ieri d’un olmo le rapii; la madre
cercolle invano tutto il giorno ed èmpie
or de’ gemiti suoi la valle e il bosco.
Piú d’un panier ti preparai di fiori,
piú d’un di frutta. Pallide viole,
narcisi, aneti, vergini ligustri