Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/135

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parte prima. 127


SERA.


Una pulita cameretta.


MARGHERITA rialzandosi rannodandosi le trecce.

Io darei non so che per sapere chi fosse quel signore di stamattina. Egli aveva assai bell’aria, e per certo egli è un gentiluomo; lo porta scritto nella fronte. Oltre di che ei non sarebbe stato così temerario. (parte.)

MEFISTOFELE e FAUSTO.

Mefistofele. Vien dentro; pian piano! — Su, vieni!

Fausto, dopo alcun silenzio. Lasciami solo, te ne prego.

Mefistofele, riguardando qua e là. Non tutte le fanciulle son sì ben rassettate. (Parte.)

Fausto. Salve, amabile raggio della sera, che penetri in questo santuario! E tu apprènditi al mio petto, soave tormento d’amore; tu, che languendo ti nutri della rugiada della speranza. Che aura di pace e di contentezza spira d’ogn’intorno! Che abbondanza in questa povertà! che beatitudine in questa prigione! (Si getta in un seggiolone di cuoio a canto al letto.) O, accogli me pure! tu, che già ricettasti nelle aperte tue braccia i buoni progenitori, nelle lor gioie e nei loro affanni. Quante volte uno stormo di figlioletti fece corona a questo trono paternale! E qui forse la mia diletta, grata dei doni del Natale, inclinò quella sua florida guancia a baciare piamente l’arida mano dell’avo. Dove io giri gli occhi m’innamora il bell’assetto questa cameretta. Il puro