Vai al contenuto

Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/159

Da Wikisource.

parte prima. 151

sono io fuggiasco? non discredato della mia casa? — non un disumano senza scopo nė riposo? – il quale simile ad un torrente ha imperversato giù di balza in balza, anelando all’abisso. In margine alla corrente, sul verde declivio dell’alpe, quella infelice avea posta la sua capanna; erano placidi i suoi sensi; era nel suo cuore infantile innocenza, e ogni sua cura raccolta nel suo povero ricetto. Ed io che il Signore ha riprovato, io rosi e diradicai e rovinai il monte; io divorai essa e la sua pace, io la feci vittima all’inferno. Orsù, togliti, o demonio, la tua preda, dammi aiuto a scorciare le mie angosce, e ciò che dee avvenire avvenga subitamente. Aggrava il suo destino sopra di me, e sia d’ambedue una medesima perdizione.

Mefistofele. Come e’ ribolle! come e’ riarde! Va, e consolala, o gran pazzo che tu sei. Quando un povero cervello non sa di subito ritrovare l’uscita, egli si abbatte, e dice: Io sono spacciato! Viva colui che non cade mai d’animo! Io ti ho già veduto bellamente indiavolato; e or pensa che non è al mondo più sciocca cosa di un diavolo che dàssi alla disperazione.


STANZA DI GHITA.


GHITA sola all’arcolaio.

La mia pace è ita; il mio cuore è angosciato; io non avrò mai più bene, mai più.

Quand’io non son seco, io son mesta a morte. Il mondo è squallido e pien d’amarezza per me.