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parte prima. | 179 |
zanghera, chè quest’è il suo quotidiano refrigerio; e quando le mignatte si sieno ben bene sfogate in succhiargli le natiche, egli è ad un tempo guarito degli spiriti e dello spirito. (A Fausto che è uscito di ballo.) Perchè hai tu lasciato andare quella vezzosa fanciulla che danzando ti cantava sì dolcemente?
Fausto. Ah! nel bel mezzo del canto le è schizzato di bocca un topolino rosso.
Mefistofele. Egli è assai semplice; e non bisogna stare così sulle sottigliezze: bastiti che il topo non fosse bigio. Chi può darsi fastidio di simili baie sul buono di appiccare l’uncino?
Fausto. Poi vidi....
Mefistofele. Che?
Fausto. Mefisto, vedi tu là lontano una bella e smorta fanciulla, che si sta tutta sola in disparte? Ella si ritrae lenta lenta, e all’andare direbbesi che avesse i piedi ne’ ceppi. In verità a me pare ch’ella somigli alla buona Margherita.
Mefistofele. Deh, lascia andare! chè non ne esce alcun bene. La è una figura magica, inanimata, un idolo. Male ne piglia a chi le si pone innanzi: quell’assiderato suo sguardo assidera il sangue, e l’uomo n’è rapidamente convertito in sasso. Tu hai certo udito narrare di Medusa.
Fausto. Veramente son gli occhi di un morto, che non furono chiusi da una mano benevola. Quello è il seno che Ghita mi ha conceduto; quello il soave corpo di lei.
Mefistofele. Quello è tutto stregoneccio, o pazzo che sei, da lasciarti così: subito affascinare! Sappi