Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/365

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parte seconda. 357

Elena. Or bene! Io approdai qui col mio sposo, ed ora, per cenno di lui, nella sua città lo precedo. Ciò nulla ostante, che pensiero è il suo? non riesco a indovinarlo. Traggo io qui come sposa? come regina? o piuttosto come vittima destinata ad espiare l’acerba doglia del principe, i rovesci da’ Greci per sì lungo volger d’anni patiti? Son io sua conquista, o sua prigioniera? Lo ignoro! ché gl’Immortali hannomi serbata una fama, un destino equivoco, satelliti fatali della bellezza, chè larve oscure e minacciose fin su queste soglie m’assediano e mi tormentano. E già sin dal fondo della nave non mi guardava il consorte che a rari intervalli; nè motto alcuno gli uscia di bocca benevolo e grazioso. Tenevasi egli assiso di contro a me, come se rivolgesse in mente pensieri d’infortunio e di sciagura, e al nostro arrivo entro alla baia profonda dell’Eurota, appena che le prue de’ primi navigli ebbero dato il saluto alla proda, lo intesi a dire, con tuon di voce inspirato: «Scendano qui con bell’ordine i miei guerrieri, ch’io ne faccia la rassegna in riva del mare: tu poi, vanne oltre, costeggiando la riva fruttifera del sacro Eurota, ravviando i corsieri sui prati rugiadosi infino a che abbi toccata la ricca pianura, dove Lacedemone, — campo ferace un tempo e spazioso, cinto da presso di aspre montagne — dove Lacedemone, dico, venne costrutta. Porrai quindi il piede entro alla munita regale magione, passandovi a rassegna la ancelle ch’io vi lasciai, da vecchia e prudente massaia. Là ti si parranno gl’inestimabili tesori lasciativi dal tuo genitore, e ch’io medesimo, sia in guerra come in pace, via più crescendo v’ho accumulati. Ti fia veduta ogni