Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/52

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44 prologo in cielo

Il Signore. Il mio servo.

Mefistofele. Davvero! Egli vi serve a un suo strano modo. Il bere e il mangiare di quel pazzo non sono della terra; e il tumulto della sua mente lo incalza fuor della sua frenesia. Egli dice al cielo: Dammi le tue più lucide stelle; e alla terra: Profondimi le tue delizie; nè le cose prossime, nè le lontane contentano mai il suo petto altamente affannato.

Il Signore. Se egli mi serve, ancorchè il faccia con qualche scompiglio, io non tarderò a farlo camminare alla mia luce, chè quando l’arboscello germoglia ben sa il giardiniero che ne’ prossimi anni porterà ricca messe di fiori e di frutti.

Mefistofele. Che ne va, che perderete anche costui? Sol che vogliate darmi licenza di condurlo pian piano per le mie vie.

Il Signore. Quanto egli ha a vivere sopra la terra tanto è concesso a te di fare tue prove. Che l’uomo svia finchè va pellegrino.

Mefistofele. Ve ne so grado, però ch’io non me la sono mai presa volentieri co’ morti; e specialmente io mi diletto delle guance lucenti e pienotte. Nel fatto di cadaveri io non sono in casa mia; egli m’interviene quel che al gatto col topo.

Il Signore. Or via, ti è lasciato fare. Rimovi quello spirito d’alta sua origine, e se ti riesce di avvilupparlo, volgilo in giù teco per le tue vie. E rimanti vergognato quando tu abbi pure a riconoscere che l’uomo da bene, ancorchè paja starsi perplesso, è pur sempre consapevole del buon cammino.