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viii | introduzione |
dall’infanzia, pareva un essere quasi perfetto nei suoi rapporti con gli altri.
Subito dopo la sua nascita la famiglia cominciò a prosperare. Si sarebbe detto che con lui era entrato nella casa il successo. Crebbe in un’atmosfera satura di grandi idee, di grandi visioni, di grandi aspirazioni, che si allargava man a mano che la sua intelligenza si apriva. A dodici anni Leo incominciò ad ascoltare, silenzioso ma attento e comprensivo, le discussioni che letterati, pensatori e uomini di Stato illustri di tutti i paesi facevano col padre e con la madre. Il salotto paterno fu la sua prima scuola.
Fin dall’infanzia ci eravamo accorti che Leo era un bambino molto intelligente. A 9 anni aveva incominciato a scrivere delle poesie e a 12 dei drammi, in cui già c’era «qualche cosa»: un sentimento personale, dei bagliori, che facevano sperare. Ma fu verso i 16 anni che ci accorgemmo di poter sperare le più grandi cose. Musica, poesia, pittura, teatro, filosofia, politica — tutto capiva, tutto amava, a tutto si interessava! A vent’anni il suo dramma «Le Campagne senza Madonna» ebbe a Roma un grande successo e fu salutato da Tilgher come il primo dramma della nuova generazione. Descriveva con grande forza un urto di passioni semplici, in un quadro agreste pieno di dolce poesia. A ventiquattro anni compose quel suo saggio estetico «Leonardo o dell’Arte» che Valéry nella sua prefazione giudicò «uno di quegli studi con cui i filosofi conchiudono la loro vita». Sotto al poeta era fiorito in Leo un filosofo e un dialettico, appassionato per le astrazioni. Gli dicevo spesso ridendo che c’era in lui la stoffa di un teologo o che aveva del sangue di talmudista nelle vene; e il discutere con lui di